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La nostra voce


20 agosto, a Padova è il sesto giorno di sciopero. Siamo tutti stanchi e provati, ma l’energia nell’aria è ancora molta, avvolge l’atmosfera, la leggi negli occhi e nei gesti di tutti noi. Approfitto di un momento di calma, tra un’assemblea e l’altra, per parlare con i miei colleghi. Persone che vedo quotidianamente da tanti anni, ma che, forse, solo ora sto imparando a conoscere. Voglio sapere la loro storia, voglio capire davvero ciò che li spinge ad essere qui, adesso, a combattere fianco a fianco.

Il motivo del nostro sciopero lo sappiamo tutti, l’azienda ha deciso, con un abile colpo di falce, di decurtarci lo stipendio, rivisitando il nostro contratto integrativo.

Quello che cerco è la storia dietro, perché noi, al contrario di altri, abbiamo deciso di protestare contro questa scelta dall’alto; perché noi, al contrario di altri, siamo stanchi di fare le pedine in questo gioco di poteri.

La prima che avvicino è G., che lavora come me qui dal 2006. Ha una personalità allegra e frizzante, una ragazza giovane che ha appena 30 anni, ma a cui le complicazioni della vita sono già piombate addosso da molto tempo. Mi racconta del mutuo trentennale alle spalle, difficile da sostenere con il suo lavoro part-time a 20 ore. Nonostante le ripetute richieste di un aumento ore, dall’azienda non ha mai ottenuto granchè, anzi, molto spesso hanno tentato di non garantirle nemmeno quel lavoro domenicale, quelle ore che per noi sono fondamentali per arrivare a fine mese, grazie, appunto, alle maggiorazioni. La sua rabbia non è solo rivolta verso l’azienda, ma anche verso colleghi, amici, che hanno deciso di non prendere parte a questa lotta: “ci sono tante persone che non riescono a capire che cosa stiamo facendo qui. Sei un mio collega, è da 10 anni che ci conosciamo, quando è ora di essere un gruppo effettivamente unito, tu non ci sei. Tanti mi hanno detto che ognuno ha i suoi problemi. Certo. Io ho il mio, tu hai il tuo, però se ognuno pensa solo ai suoi problemi, il gruppo non c’è.” Come darle torto? Per anni abbiamo sentito parlare dello spirito di squadra, e quando ne abbiamo più bisogno, quello spirito viene a mancare. Ma la sua allegria e la sua positività non tardano a tornare a galla, nelle sue parole, la speranza che quello che stiamo facendo qui non sia vano, e che stiamo dando l’esempio anche a tutti gli altri lavoratori della categoria, che fino adesso non hanno avuto la forza o il coraggio di protestare contro i soprusi delle grandi aziende per cui lavorano. E conclude: “Io ci provo, dopo, se succede bene, e se non succede, ci abbiamo provato, e posso svegliarmi la mattina, guardarmi allo specchio, e dirmi BRAVA.” Che bella cosa, la dignità.

A. è un uomo affascinante, che ho sempre ammirato per la sua professionalità e disponibilità. Mi racconta la sua profonda delusione verso quest’azienda, che credeva piena di valori, a cui ha dedicato anima e corpo per 10 anni. Sa che l’azienda è brava nelle sue comunicazioni, che molti hanno ceduto o cederanno, verso le strategie attente che mette in capo Ikea, con le mille interpretazioni che si possono dare, e le innumerevoli sfaccettature, che nascondono sapientemente la verità. Ma è positivo e sorridente, quando mi dice che il gruppo che si sta formando ora ha voglia di riscoprire dei valori, che li sta facendo suoi, “vivere insieme e migliorare la qualità della vita di tutti i giorni, con la collaborazione, con la stima.” Quanta saggezza!

S., invece, è più disincantata. Ha avuto modo sin dall’inizio di scoprire che quelle che racconta Ikea sono solo favole. Anche lei è qui dal 2005, da quando ci si sentiva tutti una grande famiglia, si facevano i corsi Ikea Way, e i manager offrivano i caffè in pausa ai co-worker. È una delle più agguerite, sotto questo cocente sole d’agosto: “Io voglio vincere, vincere questa guerra, e voglio anche l’aumento, subito!”. Uno stipendio equiparato al costo della vita, chiesto ad un’azienda che in crisi non è. Richiesta giustificata e legittima, che passa in sordina rispetto al tumulto che si è creato. Ottenere quello che già abbiamo sembra quasi troppo lungimirante, peccato non avere tutti la stessa tenacia.

La giornata continua, e continua la mia caccia di storie, tra una battuta allegra e qualche chiacchera con i clienti che si fermano e ci chiedono cosa sta succedendo. Sono anche a caccia di una birra fresca, ma questo, è un altro discorso.

Intercetto L., una mamma forte e determinata. Anche dalle sue parole, con la voce quasi spezzata, esce la profonda delusione verso l’azienda. Racconta di quanto era (nemmeno lei sa se usare il presente o il passato) orgogliosa di lavorare qui, di quanto ha sempre portato alta la bandiera. Un sacco di esperienze in reparti diversi, sempre disponibile e con la voglia di imparare, sempre a 20 ore. Per lei la situazione è doppiamente dura, lasciata a casa, causa fallimento, dall’altro lavoro che aveva. Le rimane solo Ikea, due figlie da mantenere, un bellissimo cagnolone e l’affitto sulle spalle. Eppure sorride, quando mi dice che la speranza è l’ultima a morire, che l’azienda non può non capire che i suoi dipendenti hanno un ruolo fondamentale, anche se in questo momento non lo dimostra.

Glielo stiamo dimostrando noi, cara L.

Perché mentre parliamo, il negozio è sottosopra, e tutti gli interinali del mondo non possono sostituire noi, che ci abbiamo messo cuore e anima per farla diventare quello che è.

Anche C. è d’accordo con me, mi spiega: “Parlo anche a nome dei miei colleghi, saremmo i primi a metterci una mano sulla coscienza e sul cuore, dal momento in cui l’azienda ci dicesse: siamo in difficoltà. L’abbiamo tirato su tutti insieme, questo negozio, ed insieme si affrontano le difficoltà. Adesso, a livello economico, Ikea Italia, Ikea Padova, non è assolutamente in difficoltà, quindi vuole tagliare così drasticamente i nostri stipendi senza un reale motivo.”

E come tutti quelli con cui ho avuto occasione di parlare, ci tiene a specificare quanto è orgoglioso dell’unione che si è creata tra di noi in questi giorni, della partecipazione altissima, non solo allo sciopero, ma anche al presidio, ognuno contribuendo un po’ a creare quel clima che non ci dimenticheremo, vadano come vadano le cose.

C’è chi ha portato la mamma anziana, che resiste allegra con noi, sulla sua sediolina pieghevole. Chi ha preparato pietanze gustose, chi passa la sua intera giornata a svolantinare ed informare i clienti. Ci sono bambini che giocano, cani che scodinzolano, e noi, che nonostante il peso della situazione, proviamo a prenderla un po’ come una festa.

Ne ho raccolte decine di testimonianze, potrei scrivere pagine e pagine di loro, di noi, di queste giornate intense e motivanti, ma chi mi conosce, poi mi dice che sono grafomane, chi non mi conosce…avrà modo di scoprirlo!

Allora concludo con una citazione di P., collega che adoro, dall’animo buono e gentile, dall’intelligenza sorprendente, che nasconde dietro un’apparenza spesso burbera.

“Io sto in presidio perché la signora Erika mi porta il pollo in umido e me lo serve con amore materno, o perché il bimbo della mia collega mi sorride e vuole giocare con me, o il cagnolino di un’altra scodinzola felice.. O perché ritrovo quell’umanità persa nel vivere quotidianamente…Penso che forse uomo non mangia uomo. Non credo tantissimo nella coscienza degli esseri umani, però, forse, sta succedendo qualcosa.”


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